Ripartire dal GestoZero. Intervista a Maurizio Donzelli
Settantuno artisti uniti da un Manifesto.
GestoZero va oltre all’essere solo un progetto espositivo declinato su tre sedi, GestoZero è anche e soprattutto la volontà di ritornare a vivere dopo un evento traumatico come i mesi di lockdown. Durante questi mesi di isolamento gli artisti hanno prodotto, pensato, scritto, fotografato, tracciato un segno capace di documentare quello stato d’animo di incertezza, di sospensione, che tutti abbiamo provato.
GestoZero è un tentativo di ricominciare, di ripartire da zero, di riprendere in mano la nostra realtà. Le fotografie e le opere selezionate, che sono esposte in questo momento al Museo di Santa Giulia fino al 20 settembre e che si sposteranno prima a Cremona e poi a Bergamo, ci mostrano una via per farlo.
Abbiamo deciso di intervistare Maurizio Donzelli, artista ed ideatore di GestoZero che ha chiamato a raccolta tutto il team di lavoro, per ricostruire il percorso fatto fino ad oggi per vedere il progetto realizzato e per mettere in risalto tutti i sentimenti positivi scaturiti da esso e dalla sua presentazione al pubblico.
Ripartire dal GestoZero.
ACME – Perché hai sentito l’esigenza di scrivere un vero e proprio Manifesto e di trasformarlo in un appello da condividere con altri artisti?
MD – Eravamo tutti in lockdown e in un certo senso la solitudine che di solito accompagna il lavoro dell’artista era oltremodo pesante e insopportabile. Mi sembrava che noi artisti visivi avessimo bisogno di essere più dichiarativi e dovessimo dimostrare qualche cosa a noi stessi per primi, qualcosa che richiamasse i valori della necessità del fare arte.
Ho scritto – l’arte è il contrario della morte – perché genera, crea. GestoZero è un atto di silenzio che precede l’atto creativo, è un momento dilatato della nostra esperienza artistica, può durare un attimo o consumarci nell’attesa .
Ma è anche il silenzio e la sospensione, dell’indugiare di fronte a quei corpi bruciati senza un funerale, di fronte al dolore, di fronte ai divieti; in parte siamo stati nella stessa condizione umana descritta nell’Antigone di Sofocle. Oltre a questa considerazione che nasce dalla lettura di un testo di un importante filosofo italiano, Giorgio Agamben, mi sono ispirato ad Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij; in quel caso sono i tartari a portare morte e devastazione nel suo mondo. L’artista/monaco, emblematicamente, si ritrova in una forzata solitudine a chiedersi le ragioni della necessità del proprio fare. Anche Rublëv rimane in uno stato di sospensione, perde quasi la speranza, la fede in Dio e in quello che fa, di fronte all’enormità della desolazione che lo circonda; ma poi incontra il ragazzo che crea la campana.. e tutto cambia, tutto ritorna ad avere un senso.
ACME – Considerando la tua ‘chiamata alle armi’, che reazione ti saresti aspettato?
MD – La reazione e la generosità di molti artisti è stata una bella risposta che non davo per scontata, si vede che il Manifesto ha toccato le corde giuste.


ACME – Pensando ad esempio al Manifesto del Futurismo, pubblicato nel 1909 da Filippo Tommaso Marinetti, gli artisti vi si erano radunati attorno formando a tutti agli effetti una “community”. Credi di aver creato, a tuo modo, un nuovo movimento artistico?
MD – Questa domanda è una domanda a cui è difficile rispondere.
Da un lato non credo proprio che questo scritto possa esser paragonato a un Manifesto come quello citato, non c’è un’unità d’intenti così individuabile, nel senso che non c’è un’unità linguistica tra gli artisti. Il manifesto GestoZero non proclama nulla, forse perché questi non sono più i tempi dei proclami, non si hanno più quei toni declamatori, di certo non si ha più quella forza e anche quella ingenuità di credere di essere dalla parte del giusto.
Ma d’altro canto credo che, per chi lo vuol cogliere, ci sia in GestoZero un pensiero unitario, legato a uno vero e proprio stato di coscienza del fare artistico – uno stadio aurorale.
È il pensiero dell’inizio, dell’incominciamento, che da qualità alla necessità del fare, che stabilisce il valore dell’opera nel momento creativo, dove il contatto tra artista e oggetto della sua produzione diventano emblematici e fluenti.
Sono questi i temi che da anni mi seducono e forse era il momento giusto per condividerli.
Porre attenzione a questa natura dell’opera, al suo declinarsi, al suo divenire “cosa nuova” novità nel mondo, è un processo su cui non si è ancora riflettuto abbastanza e su cui è possibile costruire.
ACME – Quale riscontro hai avuto dalle istituzioni e dagli artisti coinvolti?
MD – Molti artisti hanno risposto, altri hanno ignorato l’appello. La stima nei loro confronti da parte mia non cambia, sia per quelli che hanno partecipato sia per quelli che non hanno partecipato. D’altronde io non conoscevo il lavoro di molti che hanno partecipato, per questo mi sono affidato a un team curatoriale, non poteva e non doveva essere solo la mostra dei miei amici. Le istituzioni, in primis Fondazione Brescia Musei, hanno sostenuto il progetto aumentandone in questa maniera il valore e la qualità, ma all’inizio quelli che hanno aderito non sapevano neppure se si sarebbe riusciti a fare una vera e propria esposizione. Mi piace pensare che abbiano aderito istintivamente a qualcosa che li riguardava intimamente.
ACME – Quali opere ti hanno colpito maggiormente tra quelle esposte? Perché?
MD – Anzitutto le fotografie delle mani in soggettiva, che hanno preso un vero e proprio carattere artistico e una qualità inaspettata, da documento di una condizione esistenziale sono divenute vere e proprie opere; direi che questo è il nucleo più importante della mostra.
Poi visitandola da spettatore mi è piaciuto il taglio dato dai curatori, si avverte una delicatezza e una grande qualità di percorso. Non ci sono per fortuna opere-piagnisteo, dove “il male” viene reso visibile attraverso facili percorsi. Sono certo che purtroppo in futuro avremo altre mostre che chiamerò (per essere più chiaro) “mostre-covid”, dove immagini “di denuncia” cercheranno un effetto-presa più popolare sul grande pubblico.
Purtroppo le cose non cambieranno per via della superficialità di un modello di comunicazione sbilanciato verso eccessi e superficialità. La comunicazione ha preso il posto del contenuto.



ACME – Com’è stato costruire il progetto e vederlo realizzato? Come ti sei trovato con il team di lavoro?
MD – All’inizio ho cominciato a parlarne con Ilaria Bignotti e con Antonio Marchetti Lamera, a loro ho illustrato l’idea e da loro sono stato molto incoraggiato. Poi mano a mano sulla zattera abbiamo caricato ACME Art Lab, e Matteo Galbiati con Giorgio Fasol. Io da solo, senza l’aiuto di tutto questo team non sarei mai potuto riuscire a costruire un progetto di questa portata. Un grande incoraggiamento l’abbiamo poi avuto dalle istituzioni e dalla loro generosa accoglienza e adesione al progetto, dai partners sostenitori, da coloro che hanno sponsorizzato sostenendolo, è stata una mostra molto corale. Spero vada così anche nelle altre città coinvolte.
ACME – Che prospettive di crescita ti aspetti per GestoZero nel futuro?
MD – Sarebbe bello che in un futuro altri artisti in altre città si facessero portatori di questo progetto, mantenendone il carattere unitario che gli fa da sfondo. GestoZero è un modello di unità che, saltando le divisioni che spesso purtroppo contraddistinguono il nostro ambiente, permetterebbe una base di partenza comune e maggiore condivisione d’intenti. Ma parallelamente a questi pensieri positivi ho anche una sorta di pessimismo dovuto a due fatti, il primo è un dato oggettivo: GestoZero è una mostra emergenziale collegata al momento, che nasce da un dramma e da un volume enorme di emozioni che spero in futuro non si ripeta.
La seconda considerazione arriva anche dai miei contatti con le altre zone dell’Italia, dalle chiacchere telefoniche con altri artisti italiani, il dramma vissuto nelle nostre zone è stato avvertito in tono minore in altre latitudini, tutta l’Italia era sì in lockdown, ma la morte e il senso di pericolo da cui eravamo insidiati noi, qui in Lombardia, ha avuto un peso differente.
ACME – Pensi che questo periodo di quarantena abbia portato degli effetti positivi al mondo dell’arte? Pensi ci sia una nuova consapevolezza?
MD – Positivi purtroppo no. La consapevolezza cresce solo attraverso un percorso individuale, non arriva da fuori, da fuori arriva solo l’onda che destabilizza e così è stato con questa tragedia. La sensibilità individuale va curata personalmente attraverso le riflessioni prese in prima persona, atti di coscienza che non derivano da scossoni devastanti, deve esserci già qualche cosa di pronto in noi, disposto a mettersi in gioco al momento opportuno, l’arte e gli artisti nella storia l’hanno sempre dimostrato. Epicuro mi pare dicesse che ci sono due tipi di dolore: quello acuto che ti fa soffrire e basta e quello che ti cambia. Forse anche questo dolore ci aiuterà, lo spero.